«Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand ha ucciso la moglie, i figli e i genitori, poi ha tentato di suicidarsi, ma invano. L’inchiesta ha rivelato che non era affatto un medico come sosteneva e, cosa ancor più difficile da credere, che non era nient’altro. Da diciott’anni mentiva, e quella menzogna non nascondeva assolutamente nulla. Sul punto di essere scoperto, ha preferito sopprimere le persone di cui non sarebbe riuscito a sopportare lo sguardo. È stato condannato all’ergastolo.
Sono entrato in contatto con lui e ho assistito al processo. Ho cercato di raccontare con precisione, giorno per giorno, quella vita di solitudine, di impostura e di assenza. Di immaginare che cosa passasse per la testa di quell’uomo durante le lunghe ore vuote, senza progetti e senza testimoni, che tutti presumevano trascorresse al lavoro, e che trascorreva invece nel parcheggio di un’autostrada o nei boschi del Giura. Di capire, infine, che cosa, in un’esperienza umana tanto estrema, mi abbia così profondamente turbato – e turbi, credo, ciascuno di noi».
Emmanuel Carrère
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Un’ombra pesa sul capo di chiunque si prenda la briga di raccontare un crimine: è l’eredità assordante di Truman Capote, la purezza cristallina della sua prosa. E’ l’eco di “A sangue freddo”, pietra fondante e imprescindibile paradigma di un genere letterario: il cosiddetto “romanzo-reportage”.
Come molti di voi forse sapranno, nel 1960 l’autore di “Colazione da Tiffany” decise di dare una svolta alla sua – già luminosa – carriera di scrittore trasformando un sanguinoso fatto di cronaca (lo sterminio di un’intera famiglia in una fattoria del Kansas) in un romanzo oggettivo e impersonale che facesse propria la tesi flaubertiana secondo cui “l’artista dev’essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente, sì che lo si senta dovunque, ma non lo si veda mai”.