mi aiuta a non divagare e una certa parsimonia nell’enunciazione mi sembra una caratteristica indispensabile in un romanzo poliziesco. Il lettore non ha nessuna voglia di sentire le stesse cose rimasticate due o tre volte… Certo, in seguito si potranno operare dei tagli, ma farlo è spiacevole e rischia di rovinare il flusso della narrazione. Perché non approfittare della nostra naturale pigrizia per limitare le parole a quelle strettamente necessarie?
Agatha Christie, La mia vita (Mondadori, 1978)
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La lettura de “La verità sul caso Harry Quebert” – macinate 360 pagine su un poderoso totale di 770 – mi ha riportato alla mente alcuni brani dell’autobiografia della Regina del Giallo in merito al problema della lunghezza ideale di un romanzo o di un racconto poliziesco.
“Personalmente” scrive Dame Agatha “ritengo che la lunghezza ideale di un romanzo poliziesco si aggiri sulle cinquantamila parole. So che gli editori la considerano troppo breve e forse gli stessi lettori potrebbero sentirsi truffati di ottenere così poco in cambio del loro denaro; in generale è quindi consigliabile attenersi a una misura oscillante tra le sessanta e le settantamila parole. In ogni caso, meglio un romanzo più breve che uno più lungo. Ventimila parole, invece sono l’ideale per un racconto lungo. Sfortunatamente è un tipo di produzione che non ha un grande mercato e rischia di essere pagata poco, il che spesso invoglia l’autore a sviluppare la sua creazione fino a trasformarla in un romanzo.”.
La mia modestissima opinione è che scrivere un’opera di crime fiction di 770 pagine rappresenti un grosso azzardo, se non ci si chiama Stephen King. E che sia buona norma considerare, in ogni fase della scrittura, il punto di vista del lettore che è dentro di noi: “Pensa a quel che eviti quando leggi un romanzo” è il saggio consiglio di Elmore Leonard “Scommetto che non hai mai saltato un dialogo” (E. Leonard: Easy on the Adverbs, Exclamation Points and Especially Hooptedoodle. The New York Times, 16 luglio 2001).
Che poi “La verità sul caso Harry Quebert” pecchi di verbosità pur tenendosi alla larga dalle lunghe descrizioni di ambienti e personaggi e sfornando dialoghi a spron battuto… bé, come si suol dire: è un’altra storia. E avrò un’intera recensione per raccontarla 😉