Venti regole per scrivere romanzi polizieschi

Il romanzo poliziesco è un gioco intellettuale; anzi uno sport addirittura. Per scrivere romanzi del genere ci sono leggi molto precise: non scritte, forse, ma non per questo meno rigorose, e ogni scrittore poliziesco, rispettabile e che si rispetti, le deve seguire.

Nel 1928, lo scrittore e critico d’arte statunitense S.S. Van Dine (pseudonimo di Willard Huntington Wright), “papà” del detective Philo Vance, pubblicò su The American Magazine un articolo destinato ad entrare nella storia della letteratura poliziesca: Twenty Rules For Writing Detective Stories, una sorta di galateo del perfetto scrittore di gialli in venti semplici – e quasi tutte sacrosante! – regole (in rosso troverete le mie annotazioni): Continua a leggere “Venti regole per scrivere romanzi polizieschi”

La fatica di scrivere

mi aiuta a non divagare e una certa parsimonia nell’enunciazione mi sembra una caratteristica indispensabile in un romanzo poliziesco. Il lettore non ha nessuna voglia di sentire le stesse cose rimasticate due o tre volte… Certo, in seguito si potranno operare dei tagli, ma farlo è spiacevole e rischia di rovinare il flusso della narrazione. Perché non approfittare della nostra naturale pigrizia per limitare le parole a quelle strettamente necessarie?

Agatha Christie, La mia vita (Mondadori, 1978)

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La lettura de “La verità sul caso Harry Quebert” – macinate 360 pagine su un poderoso totale di 770 – mi ha riportato alla mente alcuni brani dell’autobiografia della Regina del Giallo in merito al problema della lunghezza ideale di un romanzo o di un racconto poliziesco.

“Personalmente” scrive Dame Agatha “ritengo che la lunghezza ideale di un romanzo poliziesco si aggiri sulle cinquantamila parole. So che gli editori la considerano troppo breve e forse gli stessi lettori potrebbero sentirsi truffati di ottenere così poco in cambio del loro denaro; in generale è quindi consigliabile attenersi a una misura oscillante tra le sessanta e le settantamila parole. In ogni caso, meglio un romanzo più breve che uno più lungo. Ventimila parole, invece sono l’ideale per un racconto lungo. Sfortunatamente è un tipo di produzione che non ha un grande mercato e rischia di essere pagata poco, il che spesso invoglia l’autore a sviluppare la sua creazione fino a trasformarla in un romanzo.”.

La mia modestissima opinione è che scrivere un’opera di crime fiction di 770 pagine rappresenti un grosso azzardo, se non ci si chiama Stephen King. E che sia buona norma considerare, in ogni fase della scrittura, il punto di vista del lettore che è dentro di noi: “Pensa a quel che eviti quando leggi un romanzo” è il saggio consiglio di Elmore Leonard “Scommetto che non hai mai saltato un dialogo” (E. Leonard: Easy on the Adverbs, Exclamation Points and Especially Hooptedoodle. The New York Times, 16 luglio 2001).

Che poi “La verità sul caso Harry Quebert” pecchi di verbosità pur tenendosi alla larga dalle lunghe descrizioni di ambienti e personaggi e sfornando dialoghi a spron battuto… bé, come si suol dire: è un’altra storia. E avrò un’intera recensione per raccontarla 😉

Hercule Poirot disse:

corpi-al-soleIl mio lavoro è un po’ come il suo rompicapo, signora. 

Si mettono insieme i pezzi del mosaico… pezzi d’ogni forma e d’ogni colore… e ognuno deve combaciare con gli altri.

Alle volte, poi, succede quel che è successo a lei, un momento fa, con quel pezzetto bianco. Si riesce a sistemare un gran numero di pezzi… si fa la selezione dei colori, ma tutt’a un tratto salta fuori un pezzo che per la forma e il colore dovrebbe adattarsi… diciamo… a una pelle di orso, e invece si adatta alla coda di un micio.

Hercule Poirot a Mrs Gardener

Agatha Christie, Corpi al sole (Evil Under the Sun, 1941)

Nell’arte occorre sempre

un principio di redenzione. Può essere pura tragedia se è alta tragedia, può essere ironia, pietà o l’aspro riso del forte. Ma sulla strada dei criminali deve camminare un uomo che non è un criminale, che non è un tarato, che non è un vigliacco. Nel poliziesco realistico quest’uomo è il detective.

E’ l’eroe, è tutto. Un uomo completo, un uomo comune, eppure un uomo come se ne incontrano pochi. Dev’essere, per usare un’espressione un poco abusata, un uomo d’onore per istinto, per necessità, per impossibilità a tralignare. Dev’esserlo senza pensarci e, certamente, senza mai parlarne troppo. Il miglior uomo di questo mondo è abbastanza buono anche per qualsiasi altro mondo…

Humphrey Bogart nei panni di Philip Marlowe
Raymond Chandler (The Atlantic Monthly, 1944)

La semplice arte del delitto: Philip Marlowe

( Dall’introduzione di Oreste Del Buono)


Chi non conosce Philip Marlowe?

È l’eroe di romanzi polizieschi celebri come “II grande sonno”, “La donna nel lago”, “Addio, mia amata”, “II lungo addio”. Sullo schermo ha avuto di volta in volta i tratti di Dick Powell, George Montgomery, Bob Montgomery e persino Humphrey Bogart. 

È il meno probabile realisticamente, anche se il più convincente artisticamente, dei grandi detectives. Davanti alla simpatia che è capace di suscitare, non solo il cavaliere Auguste C. Dupin di Edgar Allan Poe appare un fegatoso maniaco, non solo il poliziotto Lecoq di Emile Gaboriau appare un grossolano piedipiatti, non solo il sergente Cuff di Wilkie Collins appare un insopportabile sputasentenze, non solo l’infallibile Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle appare un’odiosa e arbitraria macchina calcolatrice, ma persino il padre Brown di Gilbert Keith Chesterton appare un’artificiosa macchietta, ma persino l’ispettore French di Freeman Wills Croft appare una mediacre nullità ma persino il commissario Maigret di Georges Simenon appare una specie di stucchevole sentina di bonomia e patetismo: la simpatia suscitata da Philip Marlowe sa di tenerezza e ammirazione, insieme, di rimpianto e compassione. Continua a leggere “La semplice arte del delitto: Philip Marlowe”